Un test delle urine per diagnosticare il tumore alla prostata

17/03/2020

da: REPUBBLICA.IT

Su Scientific Reports uno studio su test non invasivi. Bracarda: “Con un campione di urine, unito ad alcuni parametri clinici, potremmo anticipare la diagnosi di anni

Anche in ambito oncologico, le diagnosi si fanno sempre più semplici e rapide. Ora dal Johns Hopkins Kimmel Cancer Center arriva la notizia che i ricercatori stanno lavorando a un test delle urine che può diagnosticare il cancro alla prostata. La ricerca è pubblicata su Scientific Reports

Il test delle urine per il tumore alla prostata
La nuova biopsia liquida, e quindi non invasiva, su cui stanno lavorando al Johns Hopkins Kimmel Cancer Center va a cercare frammenti di RNA tipici del tumore, analizzando l’urina con uno spettrometro di massa e sequenziando l’RNA precedentemente sconosciuto. Il metodo è stato sperimentato su 1256 persone, di cui 64 con tumore alla prostata, 31 con iperplasia prostatica benigna e 31 sane. Si è visto che la sola analisi dell’RNA non era discriminante e quindi è stata aggiunta anche la ricerca di metaboliti specifici della patologia.

Genomica e metabolica al centro dello studio
Lo studio analizza in modo dettagliato un nuovo modo di approcciare le neoplasie: “Vengono studiati in modo combinato vari aspetti, come ad esempio in questo caso aspetti genetici (genomics) e le modifiche indotte sul metabolismo (metabolomics), in particolare energetico, delle cellule tumorali”, spiega Sergio Bracarda, direttore della Struttura Complessa di Oncologia Medica dell’Azienda Ospedaliera Santa Maria di Terni. Le cellule tumorali infatti, come e più di quelle normali, per crescere, dividersi e moltiplicarsi hanno bisogno di condizioni favorenti e in particolare di energia, quindi le mutazioni che apportano vantaggi in tal senso favoriscono il cancro. “Il vantaggio dell’approccio combinato – prosegue l’oncologo – è quello di valutare non solo le anomalie genetiche maggiormente specifiche di alcune neoplasie ma quelle che apportano vantaggi al tumore, quindi in poche parole le mutazioni che funzionano e che può avere un senso bersagliare”.

I vantaggi del metodo di studio
Anche se lo studio è ancora in fase iniziale e va quindi validato, presenta alcuni importanti vantaggi: “Prima di tutto – fa notare Bracarda – il fatto che sia realizzato su materiali biologici normalmente disponibili come le urine (ancor meno invasivo della blood biopsy e senza neppure ricorrere al fastidioso massaggio prostatico), quindi facilmente ottenibile e, cosa da non poco, ripetibile”. Un altro importante aspetto è l’aver identificato dei potenziali target trattabili con famaci in parte già esistenti e da poco anche da noi utilizzati in altro campo. In quest’ambito di ricerca c’è molto fermento anche in Italia e anche in altre patologie oncologiche, con interconnessioni terapeutiche interessanti anche se bisognerà valutare la sostenibilità e ripetibilità.

Come si diagnostica attualmente il tumore alla prostata
Al momento siamo in una fase di transizione: “Vale sempre l’uso del PSA e dell’esplorazione rettale, ma in caso di dubbio si va sempre più diffondendo l’uso della risonanza magnetica multiparametrica (mpMRI) come strumento diagnostico in grado di indicare le sedi a maggior rischio di contenere focolai di adenocarcinoma prostatico clinicamente importante e quindi da sottoporre a biopsia e, in un prossimo futuro, i casi da non sottoporre a biopsia”, spiega Bracarda. Il percorso è ancora perfettibile e c’è carenza di macchine adeguate e soprattutto di radiologi esperti in risonanza magnetica prostatica.

Quanto manca al test sulle urine
Quanto siamo vicini alla effettiva realizzazione di un test di questo tipo? “Non ancora, ma il modello è sufficientemente testato e credibile e le tecnologie necessarie a realizzarlo disponibili anche se non ovunque”, risponde l’oncologo. “Va creato un modello clinico per identificare un gruppo di persone ad alto rischio ove posizionarlo, ma questo è fattibile e oltretutto va nell’ottica di progetti a cui anche il nostro gruppo sta lavorando in un ottica traslazionale, direi quindi medio termine”.

La possibilità di anticipare la diagnosi
Cosa significherebbe in concreto per i pazienti poter avere un test di questo tipo? “Non abbiamo ancora parametri validati di sensibilità e specificità ma con un campione di urine, unito ad alcuni parametri clinici, potremmo anticipare la diagnosi di anni aggiungendo un parametro biologico (genomico/proteomico) a quelli clinici (fattori di rischio personali, eventuale familiarità) e di diagnostica per immagini (RMI, moderno PET imaging) per concentrare l’attenzione in fase iniziale sulle forme potenzialmente letali tralasciando le altre, prive di verosimile impatto sulla storia naturale non più del paziente ma del cittadino screenato”, conclude Bracarda.

FONTE: REPUBBLICA.IT